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sabato 22 marzo 2008

Fuori da un evidente destino

L'unico suono della città era il fischio del treno.
Da sempre, sulla ferrovia che tagliava in due Flagstaff col suo colpo di scimitarra, passavano diverse volte al giorno i treni merci della Amtrak. Le locomotive sfioravano la stazione in mattoni rossi con il loro cauto passo di rotaia e nella fatica del viaggio sembravano animali in ansia solo per la strada da fare, senza nessuna cura per quello che si trascinavano dietro. Erano lunghe litanie di vagoni, che parevano arrivare dal niente e che nello stesso posto sembravano diretti, con il loro carico di container dai colori slavati e coperti di scritte bianche. A volte tutti portavano il logo della China Shipping. Quella scritta esotica creava allo sguardo e alla mente l'immagine di posti altrove, di gente al di là del mare che in quella cittadina nel centro dell'Arizona, sole rosso d'estate e freddo bianco di neve l'inverno, erano parte della conoscenza di tutti e dell'esperienza di nessuno. Il tempo di capire che era soltanto un'illusione e i treni già se ne andavano con la sequenza di un rosario. Sferragliavano lenti e indolenti verso Est, si perdevano alla vista costeggiando per un tratto la vecchia Route 66 e lasciandosi alle spalle solo quel fischio acuto come saluto e avvertimento. A Caleb Kelso pareva di poterlo sentire anche da lì, mentre all'altezza della Snowplay Area abbandonava la Fort Valley Road per svoltare a destra e imboccare la striscia essiccata della Gravel Highway, la strada sterrata che sasso dopo sasso saliva verso Nord come una screpolatura della terra, fino a diventare la ferita rossa e insanguinata del Grand Canyon. Il Ford Bronco che guidava si adattò di malavoglia al nuovo percorso, con un cigolio di sospensioni e un risuonare di giunture medievali e di chiavi inglesi nella cassetta degli attrezzi fissata sul pavimento tra i due sedili. Caleb era affezionato a quel vecchio pick-up, che aveva sulla carrozzeria tante macchie di stucco da renderlo più mimetico della tuta che indossava. Volente o nolente, quello era il solo mezzo di locomozione che riuscisse a permettersi alla luce delle sue finanze attuali. Era costretto a rappezzarlo da sé come poteva, a mano a mano che qualche parte della carrozzeria o del motore abbandonava il mondo precario delle auto in circolazione. Necessità e virtù saldate tra di loro, che viaggiavano sulle stesse quattro ruote col viatico di una targa dell'Arizona. Le cose se ne andavano e non c'era verso di fermarle. Solo di cambiarle, se uno aveva la possibilità. E lui ce l'aveva, Cristo santo se ce l'aveva. Caleb Kelso, a differenza di tanti altri, aveva un progetto. Questa, secondo lui, era l'unica cosa che contava davvero nella vita. Avere un progetto, per quanto velleitario potesse sembrare. La storia era piena di episodi del genere. Quello che a molti era sembrato un semplice sogno di pazzi visionari, per quei pochi che ci avevano veramente creduto era diventato un grido di vittoria. Era solo questione di tempo e prima o poi anche lui avrebbe raggiunto il risultato a cui stava lavorando da anni. In un momento avrebbe cancellato tutta la fatica, tutte le notti bianche e tutto il denaro speso, ma soprattutto le derisioni e le risatine di scherno alle sue spalle. Una volta aveva letto da qualche parte che la grandezza di un uomo si misura da quanti stupidi gli danno addosso. Allora quelli che lo prendevano in giro si sarebbero mangiati il fegato, condito con la stessa merda che gli avevano sparso addosso. Sarebbero piovuti gloria e milioni di dollari e il suo nome sarebbe finito nella lettera K di tutte le enciclopedie del mondo. Kelso, Caleb Jonas. Nato a Flagstaff, Arizona, il 23 luglio 1960, l'uomo che era riuscito a... Scosse la testa e allungò una mano per accendere la radio come se con lo stesso gesto potesse accendere la sua sorte futura. L'unico risultato che ottenne fu la voce delle Dixie Chicks che chiedevano a un cow-boy di riportarle a casa e di amarle per sempre. In quel momento della vita per Caleb il concetto di casa e di amore era feroce e acuminato come il coltello Bowie che aveva appeso alla cintura. La sua casa stava letteralmente cadendo a pezzi e in quanto all'amore... Ebbe una rapida visione dei capelli biondi di Charyl che gli fluttuavano come alghe sulla pancia mentre gli faceva un pompino. Charyl. Spense l'ondata di calore allo stomaco e la radio con la stessa rabbia schiumosa e ricacciò la canzone a galleggiare muta nell'etere da cui l'aveva evocata. Distolse un attimo lo sguardo dalla strada e da tutte le visioni che la costeggiavano con il loro filo spinato. Di fianco a lui, il suo cane Silent Joe stava accucciato sul sedile del passeggero e guardava fuori dal finestrino con aria indifferente. Allungò una mano a carezzargli la testa. Silent Joe si voltò per un istante con occhio sospettoso e poi tornò a girare la testa dall'altra parte, come se fosse molto più interessato alla sua immagine riflessa nel vetro. A Caleb piaceva quel cane. Aveva carattere da vendere. O se non altro aveva un carattere molto simile al suo, commerciabile o meno che fosse. Per questo lo faceva sedere in cabina accanto a lui e non lo costringeva sul cassone dietro come facevano tutti gli altri cacciatori, che se ne andavano in giro con mezzi addobbati di teste canine che spuntavano dalle sponde e che avevano l'espressione di condannati a morte su una tradotta. Per poi disperdersi nei boschi abbaiando come forsennati quando i loro padroni scendevano dalle macchine, si mettevano in spalla i Remington o i Winchester e iniziava la caccia. Silent Joe non abbaiava mai. Non l'aveva fatto nemmeno quando era un cucciolo tutto zampe e con addosso una quantità di pelle tre taglie superiore alla sua. Per questo motivo al suo nome originale, Joe, si era ben presto aggiunta la qualifica di silenzioso, che lui si portava appuntata al petto con noncuranza come un'onorificenza. Se ne andava in giro senza parere con la sua andatura dinoccolata al limite della disarticolazione, al punto che guardandolo correre Caleb spesso aveva pensato che i movimenti, più che coordinarli, li sorteggiasse. Ma era il compagno ideale per la caccia con l'arco, quella che Caleb preferiva su ogni altra al mondo, una caccia fatta di appostamenti, immobilità, silenzio e cura del vento, per impedire di essere fiutati dalle prede. Un cervo, se stava sottovento, riusciva a sentire l'odore di un uomo o di un cane a una distanza di ottocento iarde e in pochi minuti quella distanza farla diventare di otto miglia. Non poteva dire che Silent Joe fosse veramente il suo cane, perché quell'animale dava l'idea di appartenere solo a se stesso. Ma era in fondo l'unico vero amico su cui potesse contare, per la commozione di tutte le nonne che ricamavano «Home, sweet home» sulle loro tovagliette di lino.



Fuori da un evidente destino.
Libro appassionante. Unico neo per me, è stato l'inizio. Non riuscivo a entrare in sintonia con la trama, poi...ancora una volta, Faletti, è riuscito a farmi passare notti insonni, inoltre in questo romanzo riesce a descrivere in modo coinvolgente e affascinante la tribù dei Navajo. Ha sicuramente rotto con il suo vecchio filone. Per ciò che mi riguarda, oserei dire, che nel finale è stato quasi commovente. Geniale nella descrizione degli avvenimenti e dei personaggi.

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